Agricoltura della civiltà romana
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L'agricoltura nell'antica Roma non era solamente una necessità, ma era anche idealizzata nella società d'élite come uno stile di vita. Cicerone considerava l'agricoltura come la migliore fra le occupazioni romane. Nel suo trattato Sui doveri, dichiarava che: 'fra le occupazioni nelle quali il guadagno è assicurato, nessuna è migliore dell'agricoltura, né più proficua, né più piacevole, né più consone all'uomo libero.' Quando uno dei suoi clienti fu deriso nella corte per aver preferito uno stile di vita rurale, Cicerone difese la vita di campagna come 'maestra di economia, operosità e giustizia' (parsimonia, diligentia, iustitia).[1] Catone, Columella, Varrone e Palladio scrissero manuali sull'attività agricola.
La coltivazione di base era il grano, e il pane era il pilastro di ogni tavola romana. Nel suo trattato De agricultura ("Sull'agricoltura", II secolo a.C.), Catone scrisse che la produzione migliore era il vigneto, seguito da: un giardino irrigato, una piantagione di salici, un uliveto, un pascolo, un campo di grano, alberi da foresta, un vitigno sostenuto da alberi, e infine un bosco di alberi da ghianda.[2] Nonostante Roma si appoggiasse alle risorse prodotte delle sue molte province ottenute con guerre e conquiste, i Romani più ricchi svilupparono le terre in Italia per produrre una varietà di prodotti. "La popolazione della città di Roma costituiva un grande mercato per l'acquisto degli alimenti prodotti nelle aziende agricole italiche".[3]
La proprietà della terra era un fattore determinante nella distinzione fra l'aristocrazia e la plebe, e più terra possedeva un romano, più sarebbe stato importante nella città. I soldati erano spesso ricompensati con terreni dai comandanti sotto i quali servivano. Nonostante le aziende agricole dipendessero dal lavoro servile, uomini liberi e cittadini venivano assunti per supervisionare gli schiavi e assicurare che l'azienda funzionasse agevolmente.[3]