Perdita di libri nella tarda antichità
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La perdita di libri nella tarda antichità fu uno fra gli eventi che segnarono più di tutti la cultura, la letteratura, la filosofia e più in generale l'intero patrimonio culturale dell'occidente.
Essa rappresenta infatti per le conoscenze espresse nella letteratura greca e latina una profonda frattura che, a causa dell'esiguo numero di opere che ci sono giunte fino ai giorni nostri, risulta essere insanabile. La maggior parte dei testi antichi sono conservati sotto forma di copie medievali, mentre pochissime sono le opere originali (la maggior parte sono infatti divise in frammenti).[1]
Le cause che hanno portato a tale enorme perdita letteraria sono diverse e ancora oggi molto dibattute dagli studiosi. Molti ricercatori sono concordi nel vedere la crisi del III secolo come una delle tappe fondamentali che hanno portato a questa perdita. Esistono infatti testi che descrivono delle vere e proprie distruzioni sistematiche degli scritti apologetici e filosofici cristiani durante le persecuzioni contro i cristiani e delle opere di matrice pagana nel corso della cristianizzazione dell'Impero Romano.[2] Tra le altre cause che vanno ricercate è doveroso citare il declino culturale scatenato dalle turbolenze originate dai flussi migratori delle popolazioni barbariche verso l'Impero romano.[2] Infatti, proprio in questo periodo molte collezioni di manoscritti furono le vittime più illustri dei saccheggi e delle razzie perpetrate dai barbari. Inoltre, influì molto anche il cambiamento del supporto con il quale si producevano i testi antichi.[2] Proprio nella tarda antichità, infatti, avvenne, pur sempre in maniera graduale, l'ascesa della pergamena a scapito del papiro e quella del codice a scapito del rotolo.[1] Tutto ciò, coniugato a un cambio dei canoni letterari e del sistema d'insegnamento, contribuì probabilmente alla perdita di diverse opere antiche.[2]
Mentre nell'Impero bizantino la cultura e la tradizione letteraria antica riuscì pressappoco a mantenersi fino alla caduta di Costantinopoli (è comunque doveroso ricordare che i testi venivano rigorosamente letti in chiave esclusivamente cristiana), con l'inizio dell'alto medioevo nell'Occidente ormai completamente cristiano solo una piccola percentuale di persone molto benestanti e colte tentò di conservare il patrimonio della cultura antica, selezionando gli autori considerati all'epoca più "autorevoli".[1] Fra coloro che appartenevano a questa piccola percentuale di eruditi vi era il politico Cassiodoro, che, operando sotto il regno di Teodorico il Grande, salvò diversi testi (si parla all'incirca di 100 codici) della letteratura antica riposti nel monastero da lui fondato: il Vivarium.[3] Tuttavia, fra il VII e VIII secolo, molti manoscritti andarono perduti a causa della pratica del palinsesto, la quale consisteva nel cancellare e riscrivere sopra un vecchio scritto a causa dell'alto costo dei materiale usati per la scrittura. Successivamente, durante la rinascenza carolingia, si iniziò ad avere più cura ed attenzione per i manoscritti classici, anche se tuttavia la partica del palinsesto non cessò del tutto.[2]
Soltanto con l'invenzione della stampa nel 1455 i testi antichi poterono finalmente "solidificarsi" nel tempo, diventando gradatamente accessibili anche a una cerchia più ampia di lettori.[1]